Un ricordo d’autunno

Due parole d’introduzione

Un anno fa, di ritorno da un’uscita naturalistica, mi misi al computer per stendere, come faccio sempre, alcuni appunti: data, luogo, condizioni meteo, tipologia ambientale, specie animali e vegetali osservate. Non era stata un’escursione impegnativa e tantomeno avevo fatto osservazioni di particolare interesse: però mi aveva lasciato delle sensazioni intense e così provai ad annotarle insieme ai dati più oggettivi. Mentre scrivevo mi resi conto che quello che ne stava uscendo mi piaceva e provai a giocarci un po’. Ho cercato di ricavarne un testo “documentaristico” (nel senso che raccontava qualcosa di reale senza aggiungere elementi di finzione) ma che allo stesso tempo non fosse esclusivamente un’asettica descrizione del luogo visitato. Volevo dare spazio anche alle emozioni provate. Una serie di contrattempi mi costrinse ad abbandonare il tutto a metà. A distanza di un anno ho recuperato il testo dalla cartella dove giaceva abbandonato e ho provato a concluderlo. Spero di essere riuscito a trasmettere il senso di pace e calore che ho provato durante quella passeggiata. Posso almeno dire di averci provato. 
(5 ottobre 2018)


Un ricordo d’autunno

17 settembre 2016, campagna piacentina a pochi passi dal fiume Po.

Piove, piove forte e fa freddo: siamo scesi bruscamente attorno ai 15 gradi. Le mosche e i tafani che mi davano il tormento da quando sono entrato in questa stalla si sono finalmente posati.

Una manzetta, incuriosita dalla mia presenza, smette di mangiare e mi fissa. Le sue compagne di recinto affondano placidamente il muso nel morbido e umido mix di fieno, insilato e mangimi concentrati che costituisce il loro pasto. Dietro di loro, oltre alla grigia tettoia della stalla, dopo 350 metri esatti (non uno in più, non uno in meno) di campi coltivati a medicaio, una strada, credo provinciale, taglia il paesaggio; è solo l’occasionale sfrecciare di una macchina che segna il confine di questa silenziosa parte di mondo.

E’ arrivato all'improvviso l’autunno ed io sono nel posto migliore per godermi questo passaggio stagionale.

Le città di pianura sono diventate da tempo, purtroppo, solo inseguimenti infiniti di capannoni e ipermercati interrotti da distese di parcheggi. Pochi alberi, principalmente tigli ed ippocastani, sono rimasti a scandire il passaggio delle stagioni. Per il resto le differenze tra i vari periodi dell’anno sono minime e hanno poco significato nel vissuto quotidiano degli abitanti. Cambiano i vestiti da indossare, le giornate sono più o meno lunghe, le vetrine a volte vengono decorate a tema ma tutto si esaurisce lì. Le sfumature del cambio stagione in città non esistono ed il freddo in aumento di questi giorni parla solo dei disagi del periodo autunnale.

Diverso invece è l’autunno in Appennino, bello, indiscutibilmente ma di una bellezza un po’ malinconica. I paesaggi sono suggestivi e rinnovati ma le giornate che si accorciano concedendo meno tempo per le passeggiate. Bisogna tornare a casa in fretta ed un cronometro invisibile tiene il tempo di qualunque escursione.

Qui invece, nelle pianure coltivate a foraggio, si assapora il gusto dell’autunno che preferisco. Al freddo che aumenta si contrappone il senso di calore che trasmettono le cascine, solidi edifici che promettono la presenza di un camino e di dispense colme di prodotti raccolti in estate e trasformati per rincuorare l’animo durante il lungo inverno.

Passeggiando sotto la tettoia ho percorso tutta la fila di recinti dove, divise in gruppi omogenei per età, ruminano vacche, manze e manzette. Sul lato opposto, in piccoli box, si riposano i vitelli. Sul finire della stalla c’è un varco rettangolare abbastanza grande da permettere il passaggio delle macchine operatrici. Oltre ad esso si estende un paesaggio scuro fatto di buona terra appena arata. Uno scenario bidimensionale tranne che per le occasionali farnie che lo interrompono, ergendosi verso il cielo e aggiungendo il solo elemento di tridimensionalità di questo panorama. La cortina di pioggia, come un vetro smerigliato, ne confonde i contorni creando un effetto simile a quello di un quadro astratto.

Ho avuto la fortuna di arrivare in questo angolo riparato dopo una passeggiata lungo le sterrate e i canali che attraversano la nostra pianura. Lo scenario di siepi arboree e filari di gelsi che ho percorso racconta la storia di un territorio profondamente mutato dall'azione dell'uomo. Mutato ma non ucciso: lo dimostrano i due fagiani che si innalzano in volo dalle erbe lungo il fossato. Un picchio verde giunge in volo dalla direzione opposta e i tre uccelli incrociano le loro traiettorie quasi si trattasse di uno spettacolo aereo in miniatura. Non è l’unico picchio verde a nascondersi tra le alte siepi arboree: il verso di questi uccelli infatti, simile ad una risata, è inequivocabile e mi permette di individuare un paio di altri esemplari che si muovono tra le fronde. Ho parlato di un ambiente modificato dal lavoro dell’uomo ma oserei spingermi oltre e definirlo addirittura migliorato: infatti con la creazione di canali, fontanili e altri artefatti, nei secoli passati si è assistito ad una diversificazione dell’habitat e ad un conseguente aumento della biodiversità planiziale.

Raggiungo un laghetto artificiale coperto da ninfee ormai sfiorite e circondato da essenze esotiche tra cui spicca addirittura una piccola palma. Un angolo inaspettato e ben costruito con tanto di isoletta centrale ed un piccolo ponte per raggiungerla. Al mio arrivo un'immensa carpa erbivora scappa dalla riva bassa per rifugiarsi impaurita dove l'acqua è solo leggermente più profonda, con la sua veloce ritirata solleva dal fondo un velo di melma che intorbidisce la superficie. Mi chiedo quanti anni ci abbia messo a crescere fino a quelle dimensioni in quella splendida ma minuscola pozza d’acqua dispersa nella pianura. Mi chiedo anche se sia l’unico pesce del laghetto. Lungo il canale alla mia sinistra invece c’è una nutria: placida e noncurante si nutre manipolando erbe acquatiche e portandole alla bocca con le zampine anteriori. Non sa che, proprio un paio di giorni fa, una nuova modifica alla legge sulla protezione della fauna selvatica l'ha resa specie cacciabile, colmando un precedente vuoto normativo. Il suo placido mondo forse cambierà per sempre. Del resto la pianura stessa è un territorio in continuo mutamento. Può sembrare un ambiente
antico, legato ad ancestrali tradizioni e in contrapposizione al dinamismo delle città ma non è così: da
quando gli antichi romani, per primi, iniziarono ad abbattere frassini e querce per far posto ai loro campi, questo territorio non ha mai smesso di cambiare e rinnovarsi. Mutamenti continui e radicali ma avvenuti in un lasso di tempo relativamente breve che hanno portato alla nascita di un ecosistema nuovo ed in gran parte artificiale. Un paesaggio dove ogni specie, dalla nutria al gelso, dal noce al papavero, racconta la storia di un’epoca diversa, di un lungo viaggio per giungere in Italia dai luoghi più impensabili e di popoli che qui hanno vissuto in epoche antiche.

Sulle scarpate le fioriture sono ancora abbondanti, lungo questi terrapieni d’estate si trovano anche le
orchidee: ora però sono i fiori dell’erba strega e della cornetta ginestrina a colorare di giallo e rosa tenue gli sterrati. Da qualche giorno sono spuntati anche i colchici d’autunno; splendidi fiori che come pochi altri segnalano la fine dei caldi estivi e l'arrivo delle nebbie mattutine.

Da occidente arrivano i tuoni, sono sempre più vicini e minacciosi. Dalla direzione opposta, come in
risposta, giungono i latrati ostili dei cani da guardia delle cascine. La fattoria che voglio raggiungere adesso non è più così lontana e posso camminare senza fretta sapendo che comunque la raggiungerò prima che piova. Un antico casolare, incorniciato dal terreno arato di fresco e da nuvoloni grigi aggiunge drammaticità e mistero all'atmosfera. L’intensità di questa scena mi fa riaffiorare i primi ricordi che ho di questa stagione.
Ricordi, per certi versi, relativamente “recenti”…

Quando ero un bambino infatti, all'asilo, per me l’autunno semplicemente non esisteva. Sapevo che c’erano quattro stagioni ma non mi ero mai soffermato sul fatto che ne sapevo distinguere solo tre: l’estate, con le vacanze, l’anguria, le palme e le meduse da catturare, l’inverno con l’attesa di Santa Lucia, il fieno per l’asinello e la magia del presepio; un mondo in miniatura che prendeva forma nel sottoscala e si illuminava di tante luci calde e colorate. Ad unire inverno ed estate c’era la primavera, con le passeggiate lungo il fiume a cercare rane e aironi ed il mio compleanno, che cade a maggio. Forse è imbarazzante da ammettere ma feci la mia prima conoscenza con l’autunno a sei anni, con l’inizio delle elementari e non fu esattamente amore a prima vista. Già il fatto che quella cosa chiamata scuola iniziasse proprio in autunno non deponeva a favore di questa nuova stagione che entrava a far parte del mio vocabolario. Per non farmi mancare nulla scoprii che la ricorrenza più allegra del periodo è quella dei defunti e lo scoprii grazie alla maestra e ad un suo angosciante racconto sui crisantemi: una bambina si sente dire dalla Madonna che la madre vivrà tanti giorni quanti sono i petali di un fiore e lei, per ingannare la morte, taglia quei petali in straccetti sottilissimi. Me la ricordo ancora quella mia prima festa dei morti. Mi tornano alla mente la nebbia e il buio che avvolgevano la farmacia di campagna della mia prozia: i miei genitori mi avevano affidato a lei per quel giorno mentre loro andavano in giro per cimiteri (almeno questa sferzata di gioia me la sono risparmiata). Lei, per cercare di distrarmi, mi ha proposto l’unico gioco che aveva in casa: una piccola roulette portatile in plastica. Così, sperimentando le gioie del gioco d’azzardo insieme alla mia adorata prozia, ho aspettato che quel giorno passasse. L’indomani sarei tornato a scuola riportando, non firmata, l’ennesima nota affibbiatami da quella scocciatrice della maestra. Con la speranza che, per una volta, se ne fosse dimenticata.

Un po’ perso in questi pensieri supero l’ultima del curva del sentiero, costeggia un canale melmoso dove scorre solo un rigagnolo d’acqua stagnante e resa verde da un’intensa fioritura algale.

Oltrepassato un acero arrivo alla stretta poderale che porta alla cascina, ai suoi tetti in cotto ed i suoi silos di tipo cremasco. Posso solo sperare che non ci siano cani sciolti ad attendermi mentre sento cadere le prime gocce. Riesco ad infilarmi nella stalla mentre si fanno più fitte.

Ora sono al riparo mentre alla mia destra, oltre alla tettoia, una cortina di pioggia intensa sfoca il paesaggio circostante. In fondo, del piccolo centro abitato, si riconosce solo il campanile.

Appena spiove un po’ mi avvio verso la cascina dove incontro il proprietario. Sotto un bel gazebo bianco, davanti alla casa, mi offre una forma di formaggio, pane, una salsa di fichi fatta in casa ed una bottiglia di ortrugo secco che stappiamo insieme. Soprattutto mi regala una piacevole chiacchierata. Mi racconta la sua storia e quella della sua azienda di cui suo figlio rappresenta la quarta generazione. Allevano vacche da latte, lo fanno bene, dando lavoro e ne sono giustamente orgogliosi. Mi racconta della sua laurea in ingegneria che lo avrebbe portato dove avrebbe voluto, ai suoi tempi, ma lui voleva tornare qui, alla cascina dov'era nato e come lui ha fatto suo figlio. Non può saperlo ma più di ogni altra cosa, in questo momento, avevo bisogno di quelle parole. Prima di andarmene, capendo i miei interessi, mi passa sul cellulare una serie di foto di gufi che vivono e nidificano nei filari di gelso della cascina.

Sulla facciata della casa padronale è presente un bell'affresco raffigurante Sant'Antonio Abate circondato dagli animali di cui è protettore. Un dipinto antico, restaurato un paio di anni fa, che riporta ad antiche tradizioni contadine fatte di riti e superstizioni ancestrali e ormai dimenticate. Dagli alti alberi gli uccelli ricominciano a cinguettare mentre l’edera e la vite americana, avviluppate ai muri della cascina, tornano a riempirsi dei ronzii degli insetti impollinatori. Ormai ha smesso totalmente di piovere e mi accingo a congedarmi. Mentre bevo un ultimo sorso penso che in fondo, quando avevo sei anni, l’autunno non l’avevano capito bene e c’è una magia speciale in questa stagione, una magia malinconica che forse un bambino non è in grado di percepire.

Sono passati trent'anni da quel giorno di settembre in cui scoprii l’esistenza dell’autunno e piano piano ho imparato a rivalutarlo. Ho scoperto che ci sono fiori che sbocciano all'inizio di questa stagione e uccelli migratori che arrivano in questi giorni per poi passare tutto l’inverno da noi. Soprattutto, con le estati che sembrano diventare di anno in anno più torride, ho imparato ad apprezzare persino le piogge intense e il calo brusco delle temperature di settembre.




L’antipatia che provavo per la mia maestra delle elementari invece no, quella mi è rimasta, solo un po’sopita dal tempo trascorso.




Area visitata e descritta nel testo




 Stazione di linajola comune o erba strega (Linaria vulgaris
fotografata il 6 ottobre 2019 presso 
Cortemaggione (provincia di Piacenza)



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